Comunicazione: quando la deformazione professionale diventa patologica.

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E va bene così, senza parole (V. Rossi)

Piace a tutti, credo, quando si parla con qualcuno e si capisce immediatamente chi si ha di fronte.

Quindi, tecnicamente, se una cosa ci piace negli altri e ne riconosciamo il valore, dovremmo farla nostra. Invece, quando meno servirebbe, questa semplicità la andiamo a seppellire nascondendoci dietro inutilissimi voli pindarici.

Non parlo di lavoro, o di cose particolarmente strutturate; sto parlando dei momenti più semplici, quando si parla con gli altri, gli amici, la famiglia, gli estranei, per dire le cose più semplici ma anche per spiegare uno stato danimo in un preciso momento.

Ormai si è talmente infilati nelle cose che non ci accorgiamo di quello che c’è fuori. Quello che mi ha portato a riflettere è che, tempo fa, leggendo un messaggio, invece del contenuto, mi sono focalizzata su un refuso.

Lo dico principalmente a chi campa di parole come me ma può servire a tutti: smettiamola, coi pipponi mentali, coi discorsi troppo lunghi di cui si dovrebbe tagliare metà del contenuto, coi WhatsApp chilometrici dove non si capisce nulla…per dire cosa, poi?

Spesso queste cose appartengono non solo a chi si occupa di comunicazione ma, per molti di noi, nascono da paure latenti che, inavitabilmente, partoriscono errori.

Come uscirne

Innanzitutto, voglio fare una premessa; ognuno di noi ha una sua personalità più o meno complessa e questa non va stravolta. Ma ricordiamoci che il mondo che ci circonda e le persone con cui ci rapportiamo quotidianamente non sono tutti addetti ai lavori. In ragione di questo, dobbiamo imparare a tarare il modo di comunicare con gli altri.

Allineiamoci con la semplicità, di una frase, di un gesto spontaneo, anche di parole che ci vengono dette e che possono sembrare crude ma, se le ascoltiamo bene, sono le più belle e oneste che sentiremo. Evitiamo di buttare addosso agli altri le stesse nostre paure che alimentiamo con inutili schemi e tecnicismi mentali che non servono a niente, nate dai film che esistono solo nella nostra testa.

Impariamo ad ascoltare noi stessi, il nostro corpo, il nostro cuore e le nostre emozioni. Lì si nascondono le cose belle da tirar fuori, non altrove, dove potremmo solo trovare un dito dietro a cui ci illudiamo di poterci nascondere. A volte, infatti, questo tipo di errore nasce dal bisogno di proteggersi, soprattutto quando parliamo con persone che appartengono alla sfera personale. Ci illudiamo che questo modo di parlare ci tenga al sicuro ma non è così; presto o tardi bisogna accettare la realtà che emerge dal confronto con gli altri, bella o brutta che sia.

Ogni tanto, alleniamoci a spegnere la testa laddove è giusto farlo; teniamola accesa solo quando è veramente necessario.

È nella sovrastruttura inutile che si alimentano le paure; quindi impariamo a tenere a bada la lingua.  Non dite “è tutto chiaro” se non lo è, ma soprattutto non dite mai “sono confuso” quando tutto è chiaro, altrimenti la confusione la creerete voi negli altri. Ma soprattutto non cerchiamo la difficoltà dove non c’è.

Quando abbiamo qualcosa di importante da dire, guardiamole in faccia le persone. Se invece preferiamo mandare un messaggio, facciamo in modo che sia chiaro e comprensibile, evitando metafore o strane figure retoriche che poi, se ci si incarta e non si riesce a esprimere ciò che veramente vogliamo dire, ci fanno sembrare dei coglioni ai nostri stessi occhi. Gli spiegoni vanno bene, spesso servono a fare la differenza; ma devono essere chiari e comprensibili da tutti.

Regaliamo agli altri la possibilità di migliorarci, accettando con umiltà il fatto che possiamo anche farci cambiare, se questo è un bene.

Se riusciremo a parlare come cio che stiamo vivendo, ecco, in quell’attimo saremo liberi.

 

 

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